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Catalunya Religió
Fotografia: ONG Makary Blangoua.
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(Laura Mor –CR) Il Camerun è il terzo paese africano per numero di contagi da coronavirus, secondo i dati dell’Oms. Don Miquel Àngel Pérez, rettore delle parrocchie di Santa Coloma de Gramenet e di Sant Miquel Arcàngel de Singuerlín, è tornato da lì proprio quando iniziava l’isolamento, dopo un’ulteriore permanenza di nove giorni in Ciad. “Cosa significa confinare le persone in tre miserabili metri quadrati?” si chiede il sacerdote che per molti anni è stato missionario nell’estremo nord del Camerun.

Attualmente segue a distanza quello che sta accadendo, in contatto telefonico con i missionari di Maroua, Yagoua i Yaoundé. Prende atto della mancanza di governo di un Paese che prende decisioni molto lentamente, con un presidente sparito da mesi. Ai conflitti in corso nella zona anglofona e agli attacchi di Boko Haram si aggiunge il blocco dell’economia per il confinamento. E la temuta crisi sanitaria conviverà con la precarietà quotidiana degli abitanti. Don Miquel Àngel si chiede chi conosce realmente le cifre e come farà la società camerunense se si chiudono i mercati, considerando che la stragrande maggioranza vive alla giornata.

Sono passati alcuni giorni da quando è rientrato in Catalogna. Cosa raccontano le persone con cui è in contatto sulla situazione imposta dal coronavirus?

Nella zona della missione sembra che per ora non ci sono malati. Ma a Douala è arrivato un aereo con gente contagiata, nessuno li ha controllati. Li hanno messi in un hotel-ospedale e se ne sono andati. E da lì è partito un focolaio importante. Di fatto, il Camerun, insieme al Sud Africa, è il Paese più colpito a sud del Sahara. Lontano dal confinamento le macchine giravano, le chiese erano aperte. Invece in Ciad se ne sono resi conto e per paura del Camerun hanno chiuso strade e frontiere. Noi siamo ripartiti per un pelo: se avessimo ritardato qualche ora non avremmo potuto attraversare la frontiera per prendere l’aereo. In Ciad in teoria non ci sono contagiati, in Camerun parlano di ottocento infettati. Non so come li contano, nessuno lo sa.

Una prima impressione di come sta il paese?

La sensazione complessiva è che non c’è nulla di nuovo né di migliore. Sembra che ci sia abbastanza anarchia. Il Camerun è un paese caotico, hanno passato di tutto, il presidente non dà segni di vita. Spendono tutto in armi e difesa. Il problema anglofono sta insanguinando il paese, c’è una ribellione importante nel sud-est. Che a differenza di Boko Haram ha il sostegno popolare.

Conoscendo il terreno e le infrastrutture sanitarie, come potranno far fronte al coronavirus?

I missionari dicono che sarà una catastrofe. C’è un fattore apparentemente a favore: fa davvero molto caldo, ora hanno 45 gradi. È vero che il tasso dei contagi lì non è molto alto ma in realtà nessuno lo sa perché non ci sono controlli. È un’altra società, ci sono meno movimenti che da noi. La pandemia è coincisa con un bestiale attentato di Boko Haram che ha ammazzato cinque soldati al lago Ciad e il Ciad è entrato in una specie di spirale di guerra. In Camerun dicono che le cifre sono basse, lo controllo via internet ogni giorno, ma chi le conosce davvero? Cominciano a parlare di rimedi magici….

Il governo non fornisce dati?

Il presidente del Camerun da un mese e mezzo non appare in pubblico e ci sono voci sulla sua morte. La sensazione è di anarchia assoluta. Hanno chiuso scuole e università ma una settimana dopo che lo aveva fatto il Ciad. Gli autobus dal nord al sud del Camerun ancora funzionano. Ma il volume di persone che si muovono non ha niente a che vedere con l’Europa, è molto più ridotto.

Come dobbiamo immaginarci il confinamento nelle zone urbane del Camerun?

Là la gente vive alla giornata. Nel caso del Ciad cosa è successo? A N’Djamena hanno chiuso il mercato, e di punto in bianco la gente non poteva più vendere. Poi l’hanno riaperto con l’obbligo di portare mascherine. Le faranno come potranno, perché non ce ne sono. Il problema laggiù è l’economia, la povertà, la fame. Se tu fermi l’economia in un paese in cui la gente vive alla giornata, fai sì che le persone non possano mangiare. La fame. Questo è un problema molto grave, questo sì che provoca il panico.

Mani Unite all’inizio della crisi si chiedeva come si possa chiedere di lavarsi le mani in determinate zone in cui non ci sono né acqua corrente né sapone…

Ovvio! Se la gente vive abitualmente nella m***a, se non ci sono fogne e quelle esistenti sono esterne, come si fa? Se da noi mancano mascherine, laggiù ce ne saranno per tutti? Per favore, la verità.

In Sud Africa abbiamo visto bruciare barricate. Come si può chiedere isolamento in condizioni abitative infime?

In paesi con una dittatura militare come il Ciad non sentiremo parole dolci. Il problema è isolare. Qui abbiamo casa, acqua potabile, frigoriferi, la dispensa più o meno piena…. E siamo angosciati, dentro un mondo comodo. Ma che vuol dire essere confinati laggiù? E ancor di più nelle capitali, come Yaoundé, dove ci sono interi quartieri fatti solo di miserabili baracche. La gente vive per strada perché in casa non si può vivere. Che significa confinare le persone in tre miseri metri quadrati?

A livello di assistenza sanitaria di base, se qualcuno ha bisogno di cure intensive che succede?

La sanità pubblica in quell’area è molto carente. Gli ospedali non hanno lenzuola, stanze, è tutto molto approssimativo.

Dall’Uganda un monaco di Montserrat scriveva di come avrebbero affrontato l’arrivo del coronavirus, in società più esposte all’incertezza. In Europa abbiamo vissuto lo choc emotivo di fermare progetti a lungo termine.

In Camerun ho visto che non ci sono prospettive per il futuro. Ho notato questa volta, più che in altre occasioni, un certo pessimismo della vita… malgrado ciò c’è una certa evoluzione positiva: la parte di Camerun alle prese con Boko Haram si è come fermata. Quello che mi fa molta paura con il coronavirus è che si aggiunga povertà a povertà. In Camerun fa paura la miseria sulla miseria. Lì i mercati sono vita: gente che compra, vende, si muove… Se li chiudono, ci sarà più fame.

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