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Catalunya Religió

(Laura Mor –CR) Sarà un evento per ricordare “una conversione che ha cambiato il mondo”. Enric Puiggròs parla così dell'anno ignaziano. Nominato nell'aprile 2020 delegato della compagnia di Gesù in Catalogna, in questa intervista parliamo con lui di questa celebrazione e anche delle principali sfide che affrontano oggi l'ordine e la Chiesa nel nostro paese. Il superiore generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa, inaugurerà Ignatius 500 a Pamplona il 20 maggio. E il 25 marzo 2022 la città di Manresa celebrerà i 500 anni dell'arrivo del Santo e della esperienza fondante che vi visse.

Un anniversario come questo si prevede per tempo. E nel pieno della preparazione arriva la pandemia. Come si prospettano questi 500 anni di sant'Ignazio?

Mi ricordo di quello che si fece nel 1991. Io ero ancora piccolo e non ero entrato nella compagnia. Si fece un incontro di 500 giovani a Montserrat. Vedevamo già che un giorno sarebbe arrivato il cinquecentesimo anniversario. La cifra tonda, è vero, è arrivata in mezzo alla pandemia. Cosa ha comportato? Da una parte celebriamo 500 anni di una conversione che ha cambiato il mondo. In fondo, le conversioni personali scatenano processi di trasformazione sociale. Se si collega l'itinerario di sant'Ignazio con il lavoro che sta facendo la Compagnia, si vede la potenza di un cambio di orientamento così grande in un determinato momento della vita. Potremmo aspettare i 515 anni per lasciar passare la pandemia. Ma farlo adesso significa sfruttare la vulnerabilità come un modo da vivere e celebrare. Celebrare a partire dalla nostra esperienza di vulnerabilità. Impedirà alcune cose, però aggiunge anche umiltà. Verrà il padre generale e anche lui deve stare attento al covid. Noi che siamo abituati a fare cose pompose, faremo una celebrazione autentica ma tenendo presente la vulnerabilità.

Mi fa pensare al motto della Pasqua giovane che avete organizzato a Raimat: “Riparami”.

Sì, abbiamo utilizzato questa immagine di riparare la ceramica con l’oro come fa la tradizione giapponese. L'esperienza cristiana, la ferita, la cicatrice è la parte più bella, quella Che Dio guarda con più amore. La ferita, nel caso di Ignazio diventare zoppo. E il processo di accettare, di lottare con tutte le sue forze per non rimanere zoppo - e di sottomettersi a torture per evitarlo, come dice l'autobiografia - quando ancora dubitava se diventare cavaliere o no. Alla fine, la limitazione lo spinge, e parla della sua ferita ma in modo “integrato”. È già missione. Chi parla della propria cicatrice può comprendere le cicatrici degli altri. Puoi comprendere e accompagnare le conversioni degli altri quando hai vissuto la tua conversione. Non è un tema morale, è un tema esistenziale.

Il libro “Umano, più umano” di Josep Maria Esquirol, parla molto di questa ferita intrinseca nell'esistenza umana. Nel caso di sant'Ignazio mette l'accento sulla novità con il motto “vedere nuove tutte le cose”. Dov'è qui la ripetizione ignaziana?

Parte della conversione di sant'Ignazio è la capacità di rilettura della sua vita. E di tornare una volta e un'altra alle esperienze vissute per reinterpretare avvenimenti che acquistano una nuova luce. Perciò ci sono tre luoghi, lo scenario è un trittico: Pamplona, Loyola, Manresa. E tre date: 20 maggio, 12 marzo e 13 luglio. Il luogo della ferita e il luogo del trauma, il luogo dove, in modo inatteso, una bomba distrugge tutti i tuoi sogni. Loyola è anche il luogo del combattimento e del cambio di vita. Ignazio ha questo sogno lecito di essere cavaliere e anche questa nuova idea che va crescendo al suo interno di imitare i santi, e di conseguenza seguire la vita di Cristo.

Come avanza questo discernimento di sant'Ignazio?

Osserva e comprende che c'è un linguaggio non solo esterno, verbale, che ascolti con l'udito. Il linguaggio interiore, dello spirito - che chiameremmo mozioni - richiede un apprendistato. Loyola è anche il luogo del primo apprendistato. È allora che decide di abbandonare le armi. Questo itinerario lo fa arrivare fino a Manresa, scuola d'amore. Lì va più a fondo, arriva alla fine di un pozzo esistenziale ma anche di una visione spirituale profonda.

Con la responsabilità come delegato della compagnia in Catalogna e arrivata la pandemia. Il suo predecessore ebbe a che fare con un cambio di paradigma a livello di struttura territoriale. Quali priorità ha adesso per la Catalogna?

In Catalogna con la piattaforma che mi ritrovo ci sono tre ambiti. Primo, il mondo della fede. La Compagnia è sempre stata pioniera del dialogo con la cultura, la società, le scienze… e la Compagnia non vuol dire solo quello che fanno i gesuiti: lo fa tutta la famiglia ignaziana, laici, gesuiti, religiosi, sacerdoti e religiose. Fa parte di una missione che non è nostra ma di Cristo.

Secondo ambito?

La seconda grande sfida è la presenza sulle frontiere come luogo privilegiato per vivere il Vangelo. Noi lo concretizziamo nell’ospitalità. Non solo l'accoglienza degli immigrati ma anche l'ospitalità dell'infanzia a rischio, della cooperazione… c'è una dinamica di collaborazione tra le opere del settore sociale per dare una risposta migliore ai nostri quartieri. Questo in collaborazione con istituzioni e altri settori della Compagnia.

E il terzo?

C'è anche il tema educativo. Con la preoccupazione e il desiderio di trovare il linguaggio per spiegare la bontà di una proposta educativa che riteniamo abbia senso. Più nel campo delle scuole che delle università. Però abbiamo la sensazione di essere presi a calci dappertutto.

Vi sentite incompresi nella proposta educativa?

Incompresi sul fatto che non offriamo una proposta educativa elitaria, indirizzata solo ha una fascia sociale. Abbiamo abbastanza presenze non solo la compagnia, ma tutta la scuola cristiana e concertata (equivalenti alle paritarie in Italia, ndt) con un impegno sociale e un servizio alla società. In una società così polarizzata, si deve avere la possibilità di gettare ponti. Però ci piacerebbe un maggior riconoscimento e sostegno da parte dell'amministrazione.

Da 8 anni è responsabile delle vocazioni della provincia. Quanti gesuiti ci sono in Catalogna?

Attualmente un centinaio, dei quali 33 o 34 minori di 65 anni. Sono in calo. Nell'iter formativo in Spagna ce ne sono 5 ma nessun catalano nel noviziato. Però il prossimo anno potrebbe esserci una buona leva. L'importante è che ci sia movimento e che le persone considerino le opzioni per Cristo. La figura del gesuita è credibile quando sta accanto alle persone. Questa è la cultura vocazionale: vogliamo promuovere processi di fede nella società.

Prima parlava di Manresa: continua ad essere un luogo centrale di queste esperienze? E con la pandemia?

Il problema è che non si poteva fare nulla per le restrizioni sanitarie; è stato un dramma. Con le case di esercizi, se ti volevi rovinare, quest'anno era quello giusto... La Cova di Manresa era un posto importante di formazione, di approfondimento ignaziano, internazionale… tutto questo è passato da 100 a zero. Ma la gente ha il biglietto pronto in attesa di venire. Dipenderà dal ritmo delle vaccinazioni negli altri paesi.

E per i catalani?

C'è un grande impegno per fare di Manresa un luogo di riferimento per i giovani. Abbiamo avuto anche l'intervento di Rupnik che è un'autentica meraviglia. Bisognerà stare attenti che le persone non smettano di venire a trovare sant'Ignazio per visitare i mosaici di Rupnik… Non è un'anticamera della cova ma il nuovo santuario è stato reso più dignitoso. Mi piace molto anche la nuova cappella di Montserrat. Manresa continuerà ad avere la vocazione di servizio della formazione ignaziana, centro di proiezione internazionale ma anche riferimento spirituale per la nostra società.

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