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Catalunya Religió

(Glòria Barrete –CR) Il cardinale e arcivescovo di Rabat, il salesiano Cristóbal López, parteciperà a un evento questo venerdì a Barcellona. Abbiamo colto l'occasione per parlare con lui di questioni ecclesiali, sociali e migratorie.

Preferisce essere presentato come cardinale o come salesiano?

Sono salesiano, diventare cardinale è stato un incidente! Essere salesiano è la mia identità cristiana, e ciò che è venuto dopo sono incidenti di percorso. Essere cardinale per me non aggiunge nulla a quello che sono, per me è essenziale essere cristiano e salesiano.

Lei sostiene che essere cardinale non è una promozione. Come lo intende dunque?

È un servizio che mi viene chiesto di rendere alla Chiesa universale. Tutte il resto, essere vescovo, essere cardinale, è una conseguenza della mia vocazione battesimale. La cosa fondamentale è il battesimo che ci rende figli di Dio e fratelli di Gesù e di tutta l'umanità, questo è l'onore più alto, la nostra vocazione fondamentale. Tutto il resto sono servizi che si prestano all'interno della comunità cristiana, che non ci rendono né migliori né peggiori, né più né meno di nessun altro. Siamo tutti uguali nel battesimo, questo è fondamentale.

Il concetto che un Cardinale è il "Principe della Chiesa" ha distorto questa uguaglianza?

È così. Io rivendico di essere un principe ma non per essere cardinale bensì di nascita. Cos'è un principe? Un figlio di re. Mia madre si chiamava María Reyes e tutti la conoscevano come Reyes. Sono il figlio di Reyes, un principe di nascita. Essere principe perché si è cardinale è fuori di ogni ecclesiologia secondo il Vaticano II. A maggior ragione la pretesa di essere un principe della Chiesa. Non lo voglio, non lo accetto. Sono cardinale per un servizio che il Papa mi ha chiesto, un consigliere del Papa per dirla in altro modo, ma niente di più.

Come si traduce nella sua vita quotidiana questo essere uguale agli altri?

Cerco di vivere la povertà a cui mi sono impegnato come salesiano e come valore cristiano. Tutti siamo chiamati a vivere così nel Vangelo. Voglio identificarmi con i poveri, è un'opzione. È una fortuna, ad esempio, che i paramenti cardinalizi siano stati semplificati, sia nella vita quotidiana che nella liturgia. Anche se potrebbero essere ulteriormente semplificati, penso che oggi non sia più scandaloso. Prima poteva esserlo, penso al problema dello strascico rosso di cinque metri, per esempio, ma non esiste più. Mi vesto semplicemente, e quello che vedo in generale va in quella direzione. Porto la croce salesiana, una croce semplice, che indossavo prima di diventare vescovo e con discrezione. Mi piace essere il più semplice possibile, e in estate ancor più di adesso.

Il “carrierismo” che prevale in alcuni casi all'interno della Chiesa è un handicap per ricordare che si sta servendo gli altri?

Sì. Ci sono atteggiamenti e pretese del genere. Grazie a Dio non credo sia una cosa maggioritaria, però era stata praticamente estirpata e invece nelle nuove generazioni riappare, come un'erbaccia che la sradichi ma dopo un po' ricresce perché è rimasta sotto terra. C'è oggi l’atteggiamento tra i nuovi sacerdoti di entrare in una carriera a gradini, dove si sale più in alto, si guadagna di più e si ottengono privilegi. Questa situazione è molto triste per me, poiché dico che è una minoranza, ma è triste perché Gesù ci dice molto chiaramente che “non sono venuto per essere servito ma per servire”. Questo è chiaro, e se non lo facciamo è perché non lo vogliamo. Il Vangelo è acqua limpida.

Don Bosco, il fondatore dei Salesiani, aveva sogni rivelatori. Lei come sogna la Chiesa?

Papa Francesco nel documento “Querida Amazonia” termina in un capitolo parlando di quattro sogni. Un sogno sociale, un sogno culturale, un sogno ecologico e un sogno ecclesiale. Qui parla di una Chiesa sinodale, comunitaria, in cui si va avanti insieme; una Chiesa popolo di Dio, in comunione. Come ha detto una volta il Papa, “come vorrei una Chiesa povera per i poveri”; una Chiesa in uscita, come ripete spesso, che esce e si mette al servizio del mondo per costruire la società secondo i criteri del Vangelo; una Chiesa che va verso chi è ferito. Una Chiesa così è quella che sogno, e in questo sogno concordo pienamente con le espressioni di papa Francesco e con ciò che intendo come Vangelo. Alcuni credono che il Papa stia inventando un nuovo cristianesimo e invece no, quello che sta facendo è essere più tradizionalista, riportarci costantemente al Vangelo.

Lei è cardinale a Rabat, in Marocco, un Paese dove i cristiani sono una minoranza. Cosa fa la Chiesa in Marocco?

Io qui mi sono convertito. Non ora, ma anche quando sono stato a Kenitra per otto anni. Venivo da una situazione completamente diversa nella cristianità in Paraguay, dove il 99% delle persone erano battezzate e dove la Chiesa occupava tutti gli spazi e aveva una presenza e un peso molto importanti nella società. Ora mi trovo in un luogo in cui i cristiani sono una minoranza assoluta, insignificante, dove non abbiamo alcun peso sociale. Viene da chiedersi cosa stiamo facendo qui, qual è il significato della presenza della Chiesa qui. Non si cresce, cioè siamo pochi e sicuramente continueremo ad essere pochi. Una società commerciale se ne sarebbe andata dopo tanti anni senza realizzare "profitti". Restiamo perché crediamo di essere qui perché Dio ci chiama ad esserci, e poi scopriamo ciò che spero scopra tutta la Chiesa: il fine è il Regno di Dio, non la Chiesa. Non siamo qui per far ingrandire la Chiesa, siamo qui per annunciare Cristo e il Vangelo. E lo facciamo attraverso la nostra testimonianza personale, il nostro lavoro per costruire un mondo migliore, e per fare dell'umanità, sempre di più, la famiglia di Dio, unita e in fraternità. Viviamo con gioia la nostra fede cristiana qui in minoranza.

Il dialogo interreligioso inizia giorno dopo giorno piuttosto che dalle alte sfere?

Il dialogo islamo-cristiano si vive anzitutto nella convivenza, nella quotidianità, nell'amicizia, nel buon vicinato, nel lavoro. È qui che scopri che ogni persona è diversa ma è una brava persona, o magari non tanto, ma quando lo fai ti rendi conto fino a che punto siamo uguali, la stessa famiglia. Consiglio vivamente un motto che mi sono mezzo inventato che dice "parla meno dei musulmani e parla di più con i musulmani". Quando parli con un musulmano e gli chiedi le sue preoccupazioni, come vive, quali sono le cose che lo angosciano, ti rendi conto che è come noi. Il dialogo interreligioso consiste in questo e si fa quasi senza volere. Poi c'è il dialogo delle opere, lavorare insieme per i diritti umani, per le grandi cause dell'umanità. Anche qui possiamo avere progetti comuni.

In Russia, con l'invasione dell'Ucraina, religione e Stato sono andati mano nella mano. Le religioni sono spesso accostate ai conflitti e si dimentica il legame di pace che possono creare?

Ci sono troppe brutte esperienze nella storia della Chiesa a questo proposito. Ci deve essere sempre una buona distanza tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e Politica. Né essere completamente separati come da qualche parte, né in opposizione e persecuzione, né essere così vicini che alla fine siamo una cosa sola. Non è facile.

In Russia, pur non conoscendo a fondo la realtà, penso che ci sia un'eccessiva fusione tra Chiesa e Stato, come è successo con il regime franchista in Spagna. È triste che a papa Francesco venga chiesto di schierarsi e di andare in Ucraina. Il Papa non è né per l'Ucraina né per la Russia, è contro la guerra e per la pace. È per entrambi i popoli, non può dire di preferire un popolo a un altro, anche se l'operazione militare è stata fatta scoppiare da uno dei due. Ciò che il Papa cerca è la pace e che tutti noi viviamo e ci capiamo come fratelli.

Dove dovrebbe stare la Chiesa oggi?

Ovunque si trova la persona umana, specialmente i più poveri e abbandonati. La Chiesa, che non è solo i vescovi, deve stare dove c’è dolore. I cristiani devono essere come il sangue che va alla ferita senza essere chiamato. Quando il sangue sgorga dalla ferita non è che vuole scappare; vuole chiudere la ferita con le piastrine. Un cristiano dovrebbe stare dove c'è una ferita nel mondo, cercando di sanare quella ferita. Bisogna essere ovunque, ma soprattutto dove c’è una ferita.

L'intera Europa sta affrontando l'accoglienza dei profughi dall'Ucraina. Esiste un doppio standard sull’accoglienza in Europa?

Sì. Ora si vede di che pasta è fatta l’Europa. Prima la Spagna non poteva ospitare cinquemila siriani, non poteva ospitare chi veniva dall'Africa, ma a chi è europeo apre le sue porte. È vero che c’è una guerra, non lo nego affatto, ma non è stato da meno in Africa centrale, o in Yemen, o in Sudan… però è più lontano, sono neri, li ignoriamo, e adesso si vede l’ipocrisia. Io per primo, come europeo, mi batto il petto e dico: "Mi vergogno di mia madre Europa". Il Papa ha detto che ogni comunità religiosa, ogni scuola, ogni parrocchia dovrebbe ricevere un rifugiato. La Chiesa spagnola si è messa in moto, eravamo pronti ad accogliere migliaia di migranti. Lo Stato ha monopolizzato le cose, ha detto che ne avremmo ricevuti diciannovemila. Due anni dopo ne erano stati ricevuti solo duemilacinquecento o tremila, e poi tutto è stato dimenticato. La testardaggine dell'Europa è vergognosa e antievangelica. So che non è facile che non si possono semplicemente aprire le porte, ma ci sono politiche sostenibili, si possono studiare le cose in modo che ci sia più apertura.

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